Dopo un voto ai ballottaggi che ha segnato un accelerazione della spinta alla protesta e al cambiamento, e non una sua parziale ricomposizione, si apre per le persone responsabili, e per classi dirigenti degne di questo nome, ­il tempo di una qualche riflessione. Sull’Italia di oggi. E su come darle voce e forza nel mondo, e come indirizzarla nello stemperare i suoi numerosi difetti e invece esaltare e comporre in un grado collettivo i suoi altrettanto numerosi pregi. 

In questo primo tempo di una complessa partita politica che si chiuderà con il referendum di ottobre si è levata forte e chiara la protesta popolare verso le sue classi dirigenti. Non solo politiche. Del resto, che questa crisi italiana sia nata economica e sociale negli anni settanta, e poi sia diventata con il crollo del sistema politico della Guerra Fredda di classi dirigenti, è oramai quasi senso comune. Se questa è una crisi di classi dirigenti -­ del resto lo testimonia la presa popolare della narrativa della “casta” come problema principe della Repubblica – la nostra riflessione dovrebbe volgersi ad individuare un percorso di ricostruzione della sua credibilità e della fiducia necessaria perché essa possa operare e compiere scelte, magari necessarie ma a tratti impopolari. Un percorso necessariamente di innovazione, ma “temperata”. La grandezza di una generazione viene sempre dal saper interpretare la tradizione che l’ha preceduta, non nel rifiutarla in blocco. Il grande critico letterario Ernst Robert Curtius lo ha descritto bene nella sua capitale opera Letteratura europea e Medioevo latino, uscita proprio nel 1948 dopo la drammatica seconda guerra mondiale, spiegando come il Rinascimento fu possibile perché quella generazione seppe interpretare e rielaborare il lascito della classicità, come dei nani che si sanno issare sulle spalle di giganti e così più alti vedono più lontano di tutti, superando i giganti stessi. 

Lì dove si è compiuto un percorso di vera innovazione e dunque “temperata”, come a Milano con Giuseppe Sala, i risultati sono venuti. Anche se a fatica. Perché vi è certo un dato locale, ma nei ballottaggi ha prevalso una lettura nazionale da disfida di Barletta, il che in uno schema da bipolare divenuto tripolare ha schiacciato chi si è trovato nel due contro uno. È proprio il caso dell’ottimo sindaco Piero Fassino, che paga davvero colpe non sue. Ma per il resto, quanto si è saputo, soprattutto negli ultimi tempi, fare un percorso di questo tipo? Infatti anche nell’innovazione vi è un tempo per la protesta e uno della proposta, e poi un tempo nel quale miscelare le due componenti. 

Per farlo, o continuarlo, questi ballottaggi ci danno qualche indicazione. Primo, assumersi le proprie responsabilità, come a Roma, dove forse non può nascere una nuova classe dirigente degna di questo nome se non si ragiona su se e su che cosa abbia fallito quella precedente: si intende quella che ha diretto con luci e ombre per venti anni la capitale. Secondo, passare dall’”io” al “noi”, che può permettere non solo di creare davvero una nuova classe dirigente ­perché selezionata nei processi e non da giurie popolari ­ma anche di lavorare alla definizione di un nuovo strumento collettivo per operare nella società. Per ascoltarla, come ci chiede in modo furibondo. Voglio usare una parola non di moda: un “partito”. Seppur nuovo e non tradizionale. Ma un partito. Non un insieme di cordate. Senza un partito un Capo diventa un capetto. E il suo percorso assomiglierà più a quello descritto da Machiavelli nel Principe, quando parlava di Capitani di ventura, che a quello di Curtius per il Rinascimento con il quale si è ricostruita l’Europa dopo la seconda guerra mondiale.