Era il maggio del 2013, e non appena insediata come Sottosegretario ai Beni e alle Attività Culturali e al Turismo del Governo Letta, osai ragionare ad alta voce sulla nostra ristorazione. Quella di un grande Paese come l’Italia, fatta da decine di migliaia di professionisti, strategico e fondamentale perno e anima di un settore dal grande peso nel Pil e nella nostra vita nazionale come il turismo. Venne giù la qualunque. 

Nonostante ovviamente non intendessi né criticare un intero settore né diminuirne l’importanza, bensì solo ragionare sulle strade migliori da percorrere con innovazione e gusto per il suo sempre maggiore sviluppo. Evidentemente avevo toccato ­inavvertitamente, questo sì, ­una vacca sacra. E magari impaurito chi temeva di perdere rendite di posizione. 

Molta acqua (e molto vino) è passato sotto i ponti da allora, compresa una “pace” fatta a suon di brindisi e posate in alcune circostanze con operatori del settore. Mi è però sempre rimasta la voglia di non lasciar perdere, del resto amo andare controcorrente. E quella di continuare a ragionare su come questo settore potesse essere messo in condizioni di contribuire con tutta la sua forza creativa e sociale allo sviluppo del turismo, e dunque del Paese.  

La chiave me la offre la gioia che mi ha dato la notizia della vittoria di Massimo Bottura nel prestigioso The World’s 50 Best Restaurants, per altro una vittoria frutto di tenacia e di costante passione e competenza, visto che più che di un blitz si tratta di una lenta ma inesorabile ascesa, fino alla vetta. In questa vittoria, che è anche un modo di lavorare e di vivere, trovo il meglio dell’italiano. Quello che sa fare delle proprie virtù e creatività personali una risorsa per tutti coloro che vi lavorano. Perché le reinveste continuamente ­- spesso anche finanziariamente, cosa particolarmente coraggiosa in questi tempi – innovandole ma anche accordandole con la tradizione, da cui si viene.

Perché la nostra vera grandezza, ce lo insegna oggi Massimo Bottura, è nel saper fare creazione e unitamente impresa, il che significa spesso anche impresa sociale. Attingendo al nostro passato, senza esserne schiavi e subalterni, ma senza nemmeno per debolezza rifiutarlo in toto, mimando goffamente grandezze che sono anche frutto di una civiltà bimillenaria. Perché noi siamo nani sulle spalle di giganti, e solo il riconoscerlo ci permette di guardare avanti e lontano invece di fissare terrorizzati le altezze raggiunte non si sa come.